Uno dei temi più dibattuti nell’ambito dell’orientamento è quello relativo alla figura dell’orientatore all’interno dei “Servizi per l’Impiego“. Nel cercare di dare dei ruoli e dei compiti presso questi servizi, si è spesso seguita la linea guida dell’ISFOL che vede un orientamento di primo livello di tipo informativo e uno di secondo livello, con una più alta professionalità, legato alla relazione d’aiuto.
Orientatore nei Centri per l’Impiego
Questa netta suddivisione, a mio avviso mal interpretata dalle amministrazioni pubbliche, non ha favorito la diffusione della cultura dell’orientamento come “un’azione globale” volta ad aiutare l’individuo a prendere coscienza di sé, della realtà occupazionale, sociale ed economica, per poter poi effettuare scelte consapevoli, autonome ed efficaci. L’interpretare l’orientamento con azioni distinte, una amministrativo-informativa e l’altra spesso intesa come “clinico- diagnostica” o “diagnostico-attitudinale”, ha spesso creato confusione nell’attribuzione di ruoli e compiti da svolgere all’interno dei servizi per l’impiego pubblici e privati. In molti Centri per l’impiego, quindi, si sono vissute anomalie e discontinuità del servizio con una conseguente scarsa ed impropria informazione ed assistenza all’utenza.
Dalla riforma del 2000, con la delega alle Regioni del servizio pubblico per l’impiego e dell’orientamento e, in alcuni casi dalle Regioni alle Province, solo alcune di queste amministrazioni si sono adoperate a potenziare i Centri per l’impiego con il nuovo servizio affidato; in queste amministrazioni sono state promosse attività per sensibilizzare gli operatori dei centri per l’impiego alla cultura dell’orientamento e sono stati creati nuovi ruoli e mansioni legati a questa disciplina, ricoperti, dopo un’adeguata formazione, dal proprio personale, o affidati a professionisti esterni. Nei centri per l’impiego, in questo modo, si sono integrate le nuove attività di orientamento al lavoro con i preesistenti servizi, in un’organizzazione unica, svolta o in modo autonomo o in collaborazione con il privato. Questo ha favorito una continuità del servizio su tutto il territorio regionale agevolando le politiche attive del lavoro ed il placement (vedi ad esempio la Regione Liguria).
In altre amministrazioni, invece, si è preferito separare nettamente l’orientamento dalle attività dei Centri per l’Impiego. La regione Lazio, ad esempio, ha preferito delegare l’orientamento al lavoro ai comuni invitandoli ad istituire i Centri Orientamento al Lavoro (COL). Questa scelta, nel tempo, ha evidenziato difficoltà di coordinamento tra i diversi servizi delle amministrazioni e, poiché non tutti i comuni hanno attivato i COL, si è creato un sistema a “macchia di leopardo” dove in alcune aree era offerto questo servizio ed in altre no, con evidenti disparità di trattamento tra i cittadini.
Nei centri per l’impiego sarebbe stato utile investire sul personale già esperto in materia del lavoro, formandolo e sensibilizzandolo anche in tema di orientamento al lavoro; molto probabilmente, però, considerando l’orientamento al lavoro (di primo livello) una mera attività d’informazione, si è ritenuto che il personale esistente fosse già in grado di svolgere quest’attività ignorando che l’informazione orientativa va ben oltre la “semplice” informazione di tipo amministrativo. Il risultato è stato che le informazioni che venivano fornite durante il normale svolgimento dei servizi classici di “sportello”, erano o di tipo amministrativo o provenienti dai mass media e poco utili per chi sta cercando lavoro (approfondirò meglio l’argomento in altri articoli).
Per l’orientamento di secondo livello, molto probabilmente, è stato difficile istituire nuove figure professionali; forse per una questione di “livello d’impiego” e/o forse per una questione di possesso di laurea in psicologia o di tipo umanistico che avrebbe costretto l’amministrazione a bandire concorsi per nuove figure professionali (oggi, per alcune scuole di pensiero, la figura professionale del consulente d’orientamento è considerata una professionalità trasversale a diverse materie e quindi non legata a specifici livelli e titoli di studio se non in modo “preferibile” a percorsi di laurea umanistici).
Premesso che la figura del “consulente d’orientamento” non è ancora disciplinata e che sarebbe importante che esistesse un percorso di studi universitario finalizzato ad istruire questa professionalità, ritengo che sia un errore limitare una professione al solo conseguimento di un percorso di studi escludendo, in alcuni casi, l’esperienza maturata e quello che si è appreso durante tutto l’arco lavorativo.
Quando, attraverso un bilancio delle competenze, si analizza una professionalità acquisita, ci si basa fondamentalmente su tre aspetti: il “sapere”, il “saper fare” e il “saper essere”.
Il “sapere” è ciò che sappiamo, che abbiamo appreso attraverso un percorso di studi (formazione formale), ma anche attraverso l’auto-documentazione e l’esperienza personale e/o attraverso altri corsi, seminari ecc., cioè, quella formazione definita informale.
Il “saper fare”, invece, consiste nell’essere in grado di mettere in pratica il sapere, anche quello acquisito inconsapevolmente, in modo non formale: lo faccio e lo faccio bene, anche senza sapere il perché riesco a farlo. Prendiamo ad esempio una competenza tipica ed indispensabile per chi fa orientamento: l’ascolto attivo.
Esistono “tecniche” per applicare l’ascolto attivo che posso mettere in pratica perché le ho apprese attraverso un percorso di studi, ma posso essere altrettanto bravo a metterle in pratica in modo naturale, pur non conoscendole, perché le ho acquisite inconsapevolmente attraverso anni d’esperienza e di pratica, magari, favorita da una predisposizione personale alla relazione d’aiuto.
Infine, il “saper essere”: non può esserci professionalità se non si possiedono delle caratteristiche personali legate a quell’attività. Ad esempio, posso conoscere molto bene la matematica e fare l’insegnante di questa materia, posso conoscere tecniche d’insegnamento perché le ho studiate, ma non sarò mai un bravo insegnante se non ho quel modo di essere che mi consente di relazionarmi positivamente con gli allievi, di catturarne l’attenzione e di trasferire loro con efficacia ed efficienza la materia che, chiaramente, “amo”.
Nella mia esperienza ventennale in questi uffici ho notato, ad esempio, che in alcuni miei colleghi c’è un prodigarsi innato nell’aiuto della persona e nel mettersi a sua disposizione in modo disinteressato. Soprattutto nei più esperti, con molti anni di servizio alle spalle, noto una capacità immediata di saper riconoscere e di sapersi adattare alle diverse personalità che di volta in volta si presentano e quindi, di riuscire a comunicare con loro in modo efficace e soddisfacente come se percepissero in anticipo il modo in cui la persona che si sta avvicinando si comporterà. E’ affascinante osservarli all’opera e notare che, in modo professionale e senza farsi coinvolgere emotivamente, riescono a capire e a fornire una soluzione valida al problema dell’utente con il quale entrano in empatia utilizzando inconsapevolmente tecniche di ascolto attivo. Insomma, l’idea che mi sono fatto è che con il tempo e l’esperienza, passando quasi sicuramente attraverso molti errori, questi miei colleghi hanno acquisito il “saper essere” e alcuni “saper fare” della figura professionale dell’orientatore.
Il “sapere” e il “saper fare” sono elementi che si possono apprendere; il “saper essere”, invece, è un qual cosa che è cresciuto dentro di noi attraverso il nostro vissuto ed è quindi difficilmente acquisibile attraverso un percorso di studi. inoltre, il “saper essere” è, insieme ai valori e alle motivazioni, il motore trainante che consente di attivare nella persona anche il “saper agire”, il “voler agire” e il “saper apprendere”, altri elementi basilari per sviluppare un buon bilancio di competenze. A questo aggiungo che l’essere veramente motivato a svolgere determinate attività favorisce anche il “voler apprendere”.
Finisco quest’articolo con l’augurio che la nostra amministrazione, o quella che verrà in futuro, voglia investire sulle persone che lavorano nei centri per l’impiego, nell’intento di rafforzare il servizio di orientamento al lavoro, per una loro crescita professionale verso l’orientamento, ma soprattutto, per non disperdere ed avvilire un patrimonio di competenze che si è formato in tanti anni di lavoro.